Il marketing del Conclave

Milioni di persone hanno passato ore a fissare un comignolo. Un semplice comignolo. In attesa che da lì uscisse una fumata, bianca o nera. Un codice binario primitivo, eppure più efficace di qualunque countdown Apple o teaser Marvel.

Il Conclave, nella sua liturgia millenaria, è forse uno degli atti di comunicazione più potenti e calibrati della storia.
La Chiesa conosce benissimo le regole dell’attenzione, e le usa con sapienza e perizia. Con una strategia che ha molto da insegnare a chi si occupa di marketing.

Nessuna diretta dall’interno della Cappella Sistina. Nessuna dichiarazione ufficiale. Nessuna fuga di notizie. Il silenzio del Conclave non è un vuoto, è un pieno: è ciò che accende l’attesa, moltiplica le congetture, fa impennare l’attenzione mediatica. Mentre nel mondo delle aziende si rincorrono i contenuti e si moltiplicano le parole, il Vaticano crea una pausa carica di aspettative. Si sottrae all’apparenza per costruire l’attesa della riapparizione, come una liturgia pasquale. E così vince.

C’è qualcosa di teatrale, e quindi profondamente comunicativo, nel rituale del fumo. La suspense è gestita con maestria: il tempo è incerto, il colore è talvolta ambiguo, l’attimo fatale imprevedibile. Si guarda il comignolo come si aspetta il gol nei minuti di recupero, la sentenza in tribunale, il verdetto in diretta TV. È una coreografia studiata, dove ogni elemento – dalla fumata al suono delle campane – è parte di una strategia narrativa. E forse non è un caso se la fumata bianca arriva sempre nel tardo pomeriggio: per Wojtyla fu alle 18:18, per Ratzinger alle 17:50, per Bergoglio alle 19:06, per Prevost alle 18:05. Tutto fa pensare che non sia un dettaglio lasciato al caso: è l’orario perfetto per assicurarsi che Piazza San Pietro sia piena e che milioni di persone, anche davanti alla TV, possano assistere in diretta al primo affaccio. Quasi un Prime time della fede. Al mattino, mentre si lavora, l’effetto sarebbe ben diverso. È lecito pensare che la regia del Conclave tenga conto anche di questo: magari la votazione decisiva c’è già da ore, ma si aspetta il momento giusto per rivelarla. Perché il messaggio non è solo il contenuto, ma il contesto. L’impatto è tutto.

Ogni nuovo Papa è, inevitabilmente, un “rebranding”. Non solo di un uomo, ma dell’intera istituzione. Il nome scelto, il primo gesto, le prime parole – tutto comunica. Quando Francesco si affacciò per la prima volta, salutando con un semplice “Buonasera” e scegliendo il nome del santo di Assisi, trasmise immediatamente un segnale di vicinanza e desiderio di una Chiesa più umile e attenta agli ultimi. Non servì nessuna agenzia creativa: bastarono autenticità, simboli e coerenza con l’aspettativa di rinnovamento.

C’è chi spende milioni per costruire una campagna virale e c’è chi, con un comignolo, conquista le prime pagine globali. Il marketing del Conclave ci ricorda che la forza di una narrazione non sta nella quantità di contenuti, ma nella potenza del simbolo, nell’abilità di orchestrare l’attesa, nella cura del rito.

Non serve essere credenti per riconoscere un capolavoro di storytelling. Serve solo ammettere che la fede, in certi casi, è anche un grande dispositivo narrativo. E che il Vaticano – checché se ne pensi – sa ancora incantare le folle.

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