“Fatta la legge, trovato l’inganno”, diceva mia nonna.
E, quando si tratta di Facebook, l’inganno è sotto gli occhi di tutti e ha a che vedere con un’agorà planetaria disciplinata da prassi aziendali di diritto privato.
Se già non è semplice verificare che si rispettino le regole, figuriamoci quanto può essere agevole controllare chi le sta violando con tanto di autorizzazione “in deroga”.
Ma tant’è: da ieri Facebook e Instagram consentono espressioni d’odio nei confronti dell’esercito del Cremlino, compresi auspici di morte che riguardino il presidente russo Vladimir Putin e quello bielorusso Alexander Lukashenko.
Secondo quanto confermato a Reuters da Andy Stone, capo delle comunicazioni di Meta (società che controlla i 2 social media): “In seguito all’invasione dell’Ucraina abbiamo temporaneamente concesso forme di espressione politica che normalmente violerebbero i nostri termini, come ad esempio discorsi d’odio che chiedono la morte degli invasori russi”.
Non si tratta della prima volta: una concessione analoga era stata riconosciuta anche durante le proteste che avevano coinvolto la Repubblica Islamica, quando era consentito pubblicare appelli alla morte della guida suprema iraniana Ali Khamenei.
In sostanza Zuckerberg, da sempre paladino del politically correct, che decide cosa è appropriato e cosa inappropriato pubblicare, cosa può urtare la sensibilità dei nostri amici e attraverso quali codici comunicativi ci è concesso o vietato interagire, pena la damnatio memoriae dell’esclusione dai suoi social, ora ci fa sapere che i comportamenti giudicati inaccettabili in realtà non sono poi così gravi purché rivolti a chi stabilisce lui.
Dunque non posso commentare “ti uccido” con tanto di faccina sorridente sotto una foto pubblicata da mio cugino che mi ritrae in mutande mentre ballo sul tavolo della cucina ma, se sei russo, allora ti posso minacciare. Ovviamente “in deroga”, ça va sans dire.
Anche la deroga, però, ha delle precise linee guida: la minaccia è consentita purché non contenga 2 indicatori di credibilità, come il luogo o il metodo. Giuro.
In pratica posso scrivere “Voglio spaccare la testa a quello stronzo di Putin con un bastone per selfie”, perché contiene una sola specifica, ma non “Voglio andare al Cremlino e spaccare la testa a quello stronzo di Putin con un bastone per selfie” perché c’è l’aggravante della location.
Non solo. Secondo il consenso “in deroga” (che, precisiamo, è riconosciuto esclusivamente a chi vive in Armenia, Azerbaijan, Estonia, Georgia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia, Slovacchia e Ucraina), continueranno a non essere tollerate le minacce di violenza nei confronti dei civili o di quei soldati russi che siano prigionieri di guerra.
E chi controlla a quale categoria appartenga Andrej Dometrovo, cui un utente Instagram augura gentilmente una morte atroce sotto un carro armato (senza specificare dove)?
Quello stesso algoritmo che censura per oscenità il David di Michelangelo, manco fosse un’immagine porno scattata sul set di Rocco Siffredi? Oppure ci si affida alla soggettività malpagata di moderatori umani insoddisfatti e alla perenne ricerca di un lavoro alternativo?
Vengono inoltre rimosse “per il momento” le limitazioni che impedivano di lodare il battaglione Azov, ha spiegato Joe Osborne, portavoce di Meta. Sarà possibile esprimersi a favore della formazione di estrema destra “nello stretto contesto della difesa dell’Ucraina o del suo ruolo come parte della Guardia Nazionale”.
E così pure la policy sulle persone e sulle organizzazioni pericolose, impegnate nell’odio organizzato, che in Italia ha portato alla chiusura dei profili di CasaPound e Forza Nuova, ce la siamo giocata.
Verrebbe da chiedersi se ci sono aggiornamenti riguardo al divieto di usare Facebook per mettersi d’accordo sull’uso ricreativo di droghe. Vuoi non concederci una cannetta in tempo di guerra, per allentare la tensione?
E riguardo alle molestie come siamo messi? Se sono russo posso dare della donna di facili costumi alla Von der Leyen che continua ad annunciare sanzioni contro il mio Paese?
Vanno così in scena i “2 minuti d’odio” di orwelliana memoria, pratica istituzionalizzata che prevedeva un lasso di tempo quotidiano da impiegare insultando il nemico, come unica valvola di sfogo del grande regime totalitario.
La differenza è che, sui social, quei 2 minuti non finiscono mai: cambiano semplicemente capro espiatorio, muniti di autorizzazione, ovviamente in deroga.