L’ospedale e la regola del buonsenso

ospedaleQuanto guadagna un’infermiera? Spero che, ameno per quanto riguarda quelle dell’ospedale di Cento (FE), nello stipendio non sia compresa anche una retribuzione per la simpatia.

Per assistere un familiare ho trascorso una settimana nel reparto “chirurgia” dove, in un paio di occasioni, mi sono ritrovata ai ferri corti col personale.
Sottolineo che si tratta della mia esperienza in un unico reparto che, sia chiaro, non deve inficiare una valutazione più generale sull’efficienza della struttura nel suo complesso: a quanto ho saputo, infatti, in reparti diversi si possono vivere esperienze molto diverse e decisamente più soddisfacenti.

Per quanto riguarda “chirurgia”, il primo aspetto che mi ha colpita in modo negativo è che, per qualunque necessità, i parenti venivano fatti uscire dalle stanze e lasciati attendere a lungo nell’atrio. In una mattinata si usciva per il giro di visite, la distribuzione dei farmaci, la distribuzione di colazione e pranzo, l’igiene dei pazienti, la pulizia delle stanze, la sostituzione dei cateteri e altri milioni di motivi più o meno futili. In particolare nel week end mi è capitato di vedere parenti giunti da lontano che, ad intervalli regolari, stazionavano nell’atrio per intere mezz’ore.
L’aspetto più folle, a mio avviso, era la pulizia dei pavimenti: un’operazione di intelligence che ha richiesto più di 20 minuti. Se mi fossi portata il Mocio da casa, nello stesso tempo avrei pulito l’intero ospedale.

Intendiamoci: mi rendo perfettamente conto che ci siano protocolli da rispettare, ma esiste anche quella regola chiamata “buonsenso”, che non ha prezzo e che, purtroppo, non si compra al mercato.

Come tutti sappiamo la sanità ha subito forti tagli, e uno staff di poche infermiere a gestire 38 pazienti è decisamente sottodimensionato. Però è anche vero che, quando fai un lavoro a contatto col pubblico, a maggior ragione se il “pubblico” è composto da malati, quindi da persone in grave stato di prostrazione fisica e psicologica, non puoi essere un incazzato sociale che sbraita continuamente contro i parenti che cercano solo di portare un po’ di sollievo. Lavorare in ospedale, qualunque mansione tu svolga, richiede vocazione.

E questo senza considerare episodi di grave negligenza ai quali io stessa ho avuto modo di assistere, come l’infermiera che utilizza le forbici sul tubo di una flebo e poi le appoggia ad un cm dalla mano di una paziente in grave stato confusionale: casomai avesse deciso di afferrarle e magari risolvere da sola il problema del sovraffollamento dei reparti.

O di quando ho bussato alla sala infermiere, impegnate in chiacchiere e schiamazzi, per avvisare che una paziente era imbrattata di sangue che manco in “Carrie – Lo sguardo di Satana” di Brian De Palma (mi riferisco ovviamente alla scena del secchio durante il ballo della scuola), e questa mi risponde, con lo stesso entusiasmo di Freddy Krueger quando si avvicina l’ora del bidet, che quando ha tempo arriva. No, non volevo insinuare che potesse smettere di fare pollaio con le comari e correre immediatamente, ma non pensavo nemmeno che ci potessero volere 20 minuti per venire a verificare quale fosse l’origine di tutto quel sangue.

Mentre scrivo, un’infermiera mi ha sgridata perché ho appoggiato il computer su un tavolino che dovrebbe servire per mangiare, in una stanza in cui due pazienti hanno una gamba rotta e la terza è a digiuno. E, tanto per cambiare, mi ha spedita fuori.
Evidentemente, quando Dio distribuiva il buonsenso, lei era in fila per la simpatia.

P.S. Quello che ho descritto è lo spaccato di un ambiente nel quale, ovviamente, ci sono anche persone straordinarie: bravi medici ed infermiere volenterose. Peccato che, come spesso avviene, quelle che evidentemente non amano il proprio lavoro finiscano per offuscare anche l’impegno degli altri.

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