Lo “Smart Working” e la mentalità arretrata delle aziende italiane

Ogni mattina mi sveglio, mi preparo e, dopo un’endovena di caffè, vado in ufficio per adempiere a quella funzione di Web Marketing Manager che potrei svolgere tranquillamente stando seduta su uno scoglio a Posillipo.

“Smart working” nemmeno a parlarne, del resto è una modalità affermata negli Stati Uniti (in particolar modo nella Silicon Valley) ma adottata solo dall’8% delle aziende italiane che, probabilmente, continueranno a giudicarla “troppo innovativa” ancora a lungo.

Questo perché il nostro modello lavorativo continua ad essere di tipo “industriale”, e non tiene conto del fatto che oggi molti lavoratori non maneggiano “beni materiali” ma “informazioni”.

Eppure l’organizzazione della nostra giornata lavorativa potrebbe essere diversa, prevedere altri tempi e altri spazi, e soprattutto una retribuzione al compimento di un determinato progetto…

In pratica l’azienda non dovrebbe più “comprare” le ore di lavoro del dipendente, ma un risultato, a prescindere da quanto tempo ci impiegherà a raggiungerlo e dal luogo in cui deciderà di svolgere i suoi compiti: si tratta di portare gli obiettivi al centro del contratto di lavoro.

Dal mio punto di vista è una formula win-win: l’azienda risparmia sui costi fissi del dipendente, mentre il lavoratore risparmia sugli spostamenti e può organizzare la giornata come meglio crede.

Perché in Italia non prende piede? Semplice. Perché con lo “Smart Working” le aziende devono rinunciare a quella prerogativa cui tengono tanto: il controllo del dipendente e della sua prestazione di lavoro, con buona pace della sua reale produttività.

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