Abbiamo un problema con l’informazione

Mentre una parlamentare norvegese, Trine Skei Grande, propone i “fact checker” come candidati al Nobel per la Pace, un sondaggio del Pew Research Center stabilisce che oltre la metà degli americani si informa sui social media: Facebook, YouTube e Twitter i più usati, poi Reddit, Snapchat, LinkedIn, WhatsApp, Tumblr e Twitch.
Come dire: abbiamo un problema (Huston), perché un feed come quello di Facebook, implementato non per “rimanere in contatto con le persone della tua vita” ma per vendere annunci, così strutturato non può che distorcere, confondere, disinformare.

Nelle dinamiche social, infatti, la polarizzazione gioca un ruolo fondamentale: non solo l’utente seleziona le informazioni in base al proprio sistema di credenze, ma subentra anche un algoritmo che ne riconosce le inclinazioni e continua a proporgli contenuti faziosi su questioni complesse che meriterebbero un approfondimento, non un like.

Si tratta di dinamiche ampiamente usate (e abusate) dalla politica di matrice populista, che fa leva su argomenti profondamente divisivi per spaccare l’elettorato, avvelenare i pozzi, delegittimare l’avversario. Fino a quando uno sbalestrato qualunque si dipinge la faccia con i colori della bandiera americana, indossa un copricapo con le corna e, a torso nudo, fa irruzione a Capitol Hill.

Se censura e iniziative di fact checking non si sono rivelate efficaci per risolvere il problema, uno studio pubblicato da Nature stabilisce che nemmeno differenti scelte giornalistiche e una più accurata attenzione alla tipologia di contenuti diffusi sarebbero sufficienti ad arginare la polarizzazione (certo evitare di titolare come Libero aiuterebbe).

In questo quadro sconfortante, qualche giorno fa ho letto un ritratto molto interessante di Laurene Powell Jobs (vedova di Steve Jobs) sulla Columbia Journalism Review.
Laurene, attraverso la Emerson Collective, un’organizzazione per il cambiamento sociale, investe la fortuna che ha ereditato dal marito in settori come l’istruzione, il clima, l’immigrazione, la prevenzione della violenza armata e, dal 2016, anche l’editoria.
Negli ultimi anni ha messo almeno 250 milioni nel settore dell’informazione, diventando anche editrice dell’Atlantic, rivista (e sito di news) che tratta tematiche relative ad attualità, politica, cultura.

Mi sono chiesta: che c’azzecca con la filantropia?
Lo spiega l’articolo: “La maggior parte degli investimenti e contributi recenti di Emerson sono il frutto dell’idea che il giornalismo non sia soltanto un mezzo per affrontare altre priorità politiche ma sia esso stesso un problema che deve essere risolto”. Come il cambiamento climatico o la riforma dell’immigrazione.
Il giornalismo è un servizio pubblico fondamentale, un pilastro della nostra democrazia che va salvato, e solo attraverso istruzione e informazione potremo formare elettori consapevoli, lasciando ai social la condivisione di tramonti e gattini.

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